L’arcipelago delle isole Vanuatu si trova a circa 900mn Nord-Nord Ovest da Cape North, il punto più settentrionale della Nuova Zelanda. Si tratta di un gruppo di isole che si estende su un asse Sud-Est Nord-Ovest e ricopre un’area di circa 460mn da Anatom – l’isola più meridionale – a Espiritu Santo fino alle Banks o alle Torres, i gruppi più settentrionali.
Gli abitanti delle Vanuatu hanno origini melanesiane, il dialetto locale è il Bislama, ma Inglese e Francese sono parlati ovunque. Nonostante il paese abbia iniziato una decisa fase di sviluppo in parecchi campi, inclusa un’importante campagna di scolarizzazione, nelle isole più remote del nord la povertà è diffusa e davvero palpabile.
Ci sono villaggi dove non c’è niente, dove non c’è elettricità, dove la pioggia o le sorgenti naturali sono le uniche fonti di acqua dolce, dove gli abitanti si riuniscono ancora oggi all’interno del “Nakamal”. Il Nakamal è il luogo principale di tutto il villaggio, una grande costruzione in materiale tipico delle isole, in cui si svolgono cerimonie, si discutono temi importanti e dove si beve la kava. Qui il tempo sembra fermo a centinaia di anni fa.
Ma gli abitanti delle Vanuatu – o i “Ni Vanuatu” come si definiscono (letteralmente significa “noi apparteniamo alle Vanuatu”) – sono uno dei popoli più dignitosi e orgogliosi che abbiamo mai avuto modo di conoscere. Per non parlare dell’incredibile accoglienza riservata agli ospiti, in modo particolare a quegli ospiti che arrivano dal mare, come noi.
Il motivo principale per visitare le Vanuatu, oltre all’incredibile natura selvaggia e lussureggiante, è il popolo dei Ni Vanuatu.
Prima di partire per Anatom contattiamo l’ufficio della Dogana e dell’Immigrazione di Port Vila ad Efate (rispettivamente la capitale e l’isola principale dell’arcipelago) per chiedere il permesso di fare tappa nella baia di Anelghowhat e fermarci qualche giorno per riposare. Qui, infatti, il piccolo ufficio doganale apre solo ed esclusivamente quando arriva una nave da crociera di una compagnia marittima australiana, cioè ogni 3 settimane. In assenza della nave, non sarebbe consentito fermarsi ad Anatom senza prima recarsi a Port Vila per effettuare le pratiche di ingresso, a meno di ricevere il via libera ufficiale e per iscritto dagli uffici della Capitale. Gli ufficiali sono tutti gentilissimi, in modo particolare Bruce, l’ufficiale dedicato specificatamente alle pratiche per le imbarcazioni da diporto. Otteniamo il nostro permesso senza problemi.
Lasciamo la Nuova Zelanda il 10 Giugno 2019 e dopo 7 giorni di navigazione abbastanza confortevole raggiungiamo Anatom, l’isola più a Sud. Ancoriamo, appunto, nella baia di Anelghowhat sulla quale si affaccia l’omonimo villaggio. Manco a dirlo diamo fondo nel bel mezzo del solito groppo del benvenuto.
Coordinate: 20°14,360 S; 169°46,570 E.
La baia è molto bella, l’ancoraggio è confortevole e molto ben protetto dall’aliseo predominante, ma anche da venti del settore N, NE fino a S e SW grazie al reef e all’isolotto Inyeug (chiamato anche Mystery Island) situati a Sud.
Il benvenuto, quello serio, ce lo danno Marina e Diego di “Meccetroy” che navigano in queste acque già da un mesetto. Rimaniamo a chiacchierare per un po’, poi crolliamo dalla stanchezza. Siamo proprio cotti e dopo aver salutato i nostri amici piombiamo in coma per il resto della giornata mentre fuori si succedono piovaschi e groppi. E non fa neppure tanto caldo.
Dopo una dormita di 12 ore, con Marina e Diego ci rechiamo a terra per visitare il villaggio e acquistare verdura e frutta fresche. E’ il nostro primo impatto con un villaggio delle Vanuatu e con le sue genti: difficile descrivere le sensazioni e i sentimenti che proviamo mentre, timidamente, camminiamo in mezzo alle capanne ordinate, attraversiamo viottoli sterrati puliti e spazzati, aggiriamo orti e giardini sistemati con precisione quasi maniacale. Ma, soprattutto, mentre veniamo inondati da sorrisi e da “Welkam” (benvenuti in dialetto Bislama) e da uomini che ci stringono la mano e da donne che vogliono sapere tutto di noi e da bimbi sorridenti e incuriositi da questi nuovi arrivati.
Diego ci accompagna presso il piccolo market locale, super basico, dove però possiamo acquistare quello che ci serve, inclusa una preziosissima SIM dati locale, unico segno tangibile di “progresso”. Poi compriamo le uova direttamente dalla capanna di una signora.
Ma Anelghowhat non è uno dei villaggi più remoti delle Vanuatu, anzi. I suoi abitanti sono abbastanza abituati ai turisti considerato che Anatom rappresenta, come accennato in precedenza, una delle destinazioni di una nave da crociera proveniente dall’Australia. Ogni 3 settimane, la nave ancora al largo della baia e gli ospiti visitano il villaggio e l’isolotto di Inyeug.
Ci fermiamo ad Anatom per qualche giorno prima di riprendere il mare diretti ad Efate. Purtroppo le condizioni meteorologiche non sono buone e non ci permettono di visitare Tanna e il suo vulcano, Mont Yasur, uno dei vulcani più attivi del Sud Pacifico e uno dei più facilmente visitabili. E’ un vero peccato perchè Yasur offre uno spettacolo unico al mondo, ma proprio non possiamo dare fondo nella baia di Lenakel con le previsioni che danno il vento in rotazione da SW.
Ci mettiamo in rotta per Efate che dista circa 177 miglia da Anatom. Siamo costretti a saltare pure l’isola di Erromango, sempre a causa della meteo sfavorevole. Navighiamo tutta la notte sotto un cielo nuvoloso con pochissimo vento, piovaschi e un’onda fastidiosa che si fa sentire maggiormente nei canali fra le isole.
Raggiungiamo Efate intorno a mezzogiorno di Domenica. Non possiamo fare le pratiche di ingresso durante il fine settimana, così ancoriamo nell’area designata alla quarantena davanti a Port Vila, situata esattamente davanti al canale di ingresso perfettamente segnalato da fanali rossi e verdi e indicata da una grande boa gialla.
Coordinate: 17°44,295 S; 168°18,960 E.
Prima di aver completato la procedura di ingresso non possiamo scendere a terra né entrare nell’Inner Harbour di Port Vila – una zona super protetta dalla grande isola di Efate da Nord a Sud e dall’isolotto di Iririki a Ovest, circondata completamente da reef. All’interno della baia di Port Vila, inoltre, c’è un piccolo marina, lo Yachting World Marina Vanuatu, che oltre a disporre di alcuni posti barca ai pontili, gestisce un notevole campo boe. Il marina facilita anche tutte le formalità di ingresso nell’arcipelago contattando direttamente la dogana per ogni imbarcazione in arrivo e organizzando la visita degli ufficiali.
I fondali sono profondi oltre i 20 metri all’interno della baia e non è possibile dare fondo. L’unica zona decente è proprio l’area di quarantena o un’area a nord dell’isolotto Iririki. Purtroppo il fondo del mare è corallino e cattivo tenitore. E’ molto complicato trovare una chiazza di sabbia per far agguantare bene l’ancora, bisogna prestare particolarmente attenzione.
Trascorriamo la Domenica a bordo in compagnia di Marina e Diego, già ufficialmente entrati nel territorio delle Vanuatu e quindi liberi di spostarsi dove meglio credono. Nel tardo pomeriggio arrivano anche Monique e Jack del catamarano “Aloha”, vecchi amici dai tempi di Panama. Faremo le pratiche di ingresso insieme.
Lunedì mattina piove a catinelle. Situazione non proprio ideale per dogana, immigrazione e quarantena, ma “s’ha da fa” così noi e “Aloha” contattiamo lo Yachting World Marina sul canale 16 del VHF, ci presentiamo e chiediamo di fare le pratiche di ingresso. Ci risponde Lemara, Office Manager del marina. Lemara contatta per noi l’ufficio doganale e organizza l’appuntamento per le 10:00. La pioggia, però, è talmente intensa che gli ufficiali tardano. Capita “l’antifona”, decidiamo di recarci noi presso gli uffici invece di aspettare la visita a bordo . Impieghiamo 3 ore per completare tutte le incombenze amministrative, ma tutti sono davvero gentili e disponibili, in modo particolare Bruce. I costi sono i seguenti:
Quarantena – 5500 VT
Immigrazione – 4800 VT
Diritti portuali – 8050 VT per i primi 30 giorni, poi 100 VT dal 31° giorno.
Immigrazione – 4800 VT
Diritti portuali – 8050 VT per i primi 30 giorni, poi 100 VT dal 31° giorno.
VT = VATU delle Vanuatu. 1 EURO = 128 VATU.
Siamo ufficialmente nel territorio delle Vanuatu, possiamo lasciare l’area di quarantena e agguantare un gavitello allo Yachting World Marina, all’interno della protettissima baia di Port Vila. I gavitelli sono molto ben manutenuti e costantemente controllati. Il costo è molto contenuto: Y2K paga 1500 VT al giorno, pari a circa 12 Euro.
Una volta a terra facciamo la conoscenza di Lemara: una donna da un sorriso disarmante, di una gentilezza incredibile e di una disponibilità davvero unica. Ci spiega tutti i servizi del piccolo, ma attrezzatissimo marina: lavanderia, wi-fi, servizio di casella postale per gli yacht in transito, distributore carburante, bar e ristorante.
Approfittiamo della nostra permanenza a Port Vila per girare l’isola insieme a Marina e Diego cui si è anche aggiunta la figlia di Diego, Alice fresca fresca di aereo dall’Europa.
Visitiamo le Evergreen Cascades Waterfall, un posto incredibile! Ci sembra di essere stati catapultati in un mondo da fiaba e ci aspettiamo di veder spuntare elfi e fate da dietro un cespuglio, un albero, una pianta o una roccia.
Ci arrampichiamo su per la montagna, attraversiamo polle di acqua cristallina (e fredda!) dal colore smeraldino, percorriamo il sentiero perfettamente manutenuto dai locali, ci addentriamo nella giungla più lussureggiante fra i fiori tropicali, altissimi bambù e alberi secolari. Raggiungiamo la cima dopo una trentina di minuti. Qui troviamo la grande cascata che rovescia la propria acqua nella prima “piscina” naturale. Molti (principalmente Neozelandesi) si fanno il bagno e nuotano allegramente. Noi proviamo a immergere mezzo piede: lo ritiriamo subito semi-congelato e lasciamo le attività acquatiche ai Kiwi .
Il giorno seguente Marina, Diego e Alice si spostano nell’isola di Epi, noi, dopo aver fatto spesa e pieno di gasolio, ci accorgiamo di avere un problema al salpancora e siamo costretti a fermarci ad Efate per almeno un’altra settimana. Trovato e risolto il problema al salpancora (una spazzola non funzionava bene a causa di una delle mollettine che si era disintegrata per un’evidente infiltrazione di acqua marina), dobbiamo attendere il passaggio di una piccola perturbazione che porta tanta pioggia e un bel rinforzo di vento oltre i 30 nodi.
Quando finalmente la meteo si ristabilizza, lasciamo Port Vila e trascorriamo un paio di giorni nella baia di Port Havannah, un ancoraggio molto ben ridossato a Nord dell’isola di Efate. C’è un villaggio di poche case, una signora che vende il pane, al mattino vediamo gli uomini che si spostano a bordo delle canoe tipiche per andare a pescare.
Coordinate: 17°33,686 S; 168°16,465 E.
Poco più a sud rispetto al nostro ancoraggio c’è il resort 5 stelle “The Havannah”, un posto super esclusivo, ma incredibilmente “Yacht friendly” e dove si mangia davvero, ma davvero molto bene. Lo consigliamo.
Il 18 di Luglio mattina, finalmente, lasciamo l’isola di Efate e navighiamo le circa 60 miglia che ci separano da Epi, situata esattamente a Nord. La nostra destinazione è la baia di Lamen, a nord dell’isola.
Coordinate: 16°35,721 S; 168°09,829 E.
Lamen Bay, oltre ad essere molto ben ridossata dall’aliseo predominante, è famosa per il mare trasparente e per i dugonghi, grossi e pacifici mammiferi erbivori della famiglia dei sirenidi. I dugonghi setacciano il fondo del mare con il loro buffo muso e mangiano le alghette che crescono soltanto sulla superficie di specifici fondali marini.
Sono molto schivi e bisogna avere un colpo di fortuna per incontrarli faccia a faccia durante una sessione di snorkeling. Fortuna che noi non abbiamo: stiamo in acqua per ore, ma a parte due tartarughe gigantesche, di dugonghi non se ne vede l’ombra. Peccato!
A terra c’è un villaggio grazioso e pulito, un piccolo lodge sulla spiaggia, un ristorantino gestito da una simpatica famiglia, una scuola, una chiesa e una bellissima spiaggia di sabbia nera.
Dopo una notte abbastanza tranquilla, l’aliseo scompare, ruota leggermente e nella baia comincia ad entrare un’onda di risacca che via via si fa sempre più gonfia e frequente. Purtroppo offriamo il fianco ai treni di onde lunghe che si abbattono nell’ancoraggio.
La seconda notte è “natragggedia”. Rolliamo come matti e non riusciamo a chiudere occhio. L’ancoraggio diventa insostenibile. Invidiamo profondamente i nostri amici Kiwi Carolyne e Rob di “Gallivanta”, un Fountaine Pajot 47, che nonostante gli ondoni, non si muove più di tanto . Appena fa luce, scappiamo da Epi alla velocità della luce e volgiamo la prua verso Malakula, a Nord Ovest di Epi.
La nostra destinazione è Port Sandwich, un ancoraggio situato praticamente all’interno di un fiordo, protetto a 360°, con fondali fangosi ottimi tenitori. Port Sandwich è l’ancoraggio più sicuro di tutto l’arcipelago delle Vanuatu, il posto dove ormeggiare in caso di tempo veramente brutto.
Il mare nel fiordo è fangoso e torbido, certamente non invita a buttarsi per una nuotata. In passato, inoltre, si sono registrati un paio di attacchi da parte di squali (toro ? tigre ? non è chiaro) finiti tragicamente. Anche se nell’ultimo decennio nulla è più accaduto, meglio non indurre in tentazione i nostri amici pescecani restando fuori dall’acqua
Diamo fondo nell’ansa che si apre subito dopo Planter Point. L’ancora agguanta ancor prima di toccare il fondo . Ci sono altre due barche oltre a noi, la tranquillità è assoluta. Siamo totalmente immobili. Tutto intorno a noi vegetazione lussureggiante, giungla, palmeti, versi di uccelli e di animali. Alcune capanne si affacciano sul mare poco più avanti, c’è un villaggio a nord di Planter Point.
Coordinate: 16°26,480 S; 167°47,038 E.
Dopo la notte in bianco passata ad Epi abbiamo solo voglia di riposare e rimandiamo l’esplorazione a terra per il giorno dopo. Mentre siamo sdraiati in pozzetto, scorgiamo una canoa che si avvicina lentamente ed in silenzio. A bordo una donna e quelli che noi identifichiamo come i suoi due figli, una bimba più grande ed il fratellino più piccolo.
La donna ferma la canoa piuttosto lontano da Y2K e non compie un solo gesto per attirare la nostra attenzione, nessun richiamo. Siamo noi che ci accorgiamo di lei e siamo noi che la invitiamo ad avvicinarsi. Si chiama Geraldine, parla francese (il francese è più parlato dell’inglese a Malakula) e capiamo che desidera scambiare qualcosa con noi. Alle Vanuatu il baratto è tuttora la forma principale di scambio di beni e servizi fra i popoli dei vari villaggi e fra questi e i pochi turisti e/o velisti che si fermano nell’arcipelago.
Geraldine ci offre frutta e verdura del suo orto, noi le chiediamo come possiamo aiutarla in cambio di pomodori, papaia, cetrioli, banane e pompelmi. Ci chiede vestiti per lei e per i suoi figli. Noi siamo preparati dopo aver parlato a lungo con coloro che hanno già visitato queste isole. In Nuova Zelanda abbiamo acquistato abiti per bimbi, biancheria intima, giocattoli, abbiamo messo da parte magliette che non indossiamo più ancora in ottimo stato, abbiamo collezionato strumenti da pesca e vari utensili. Mostriamo a Geraldine quello che abbiamo, lei sceglie per se e per i bambini. Un pallone, infine, fa la felicità dei piccoli.
Geraldine ci saluta con un sorriso e si allontana da noi pagaiando lentamente.
Quando il giorno dopo esploriamo i dintorni, ci imbattiamo in un cancello che riporta un’insegna piuttosto “rustica” in cui è scritto “Rainbow Yacht Club” e sotto sono elencati una serie di servizi offerti alle barche di passaggio, inclusi pane fresco e vari generi alimentari.
Incuriositi, oltrepassiamo il cancello e percorriamo un viottolo che conduce alla capanna di Noelia e di Rock. Si tratta di una coppia di una simpatia contagiosa che con tanta buona volontà e poco altro ha messo in piedi un minuscolo yacht club super basico. Ci fermiamo da loro per un tè e una fetta di torta e nel frattempo ci raccontano di Malakula, ci insegnano qualche parola in Bislama (partendo – ovviamente – dalle parolacce ), ci parlano delle imminenti celebrazioni per la giornata dei “pikinini” (bambini in Bislama) e del fatto che ancora non si hanno notizie della nave che dovrebbe consegnare loro merci e cibo da Efate. Per quanto riguarda quest’ultima, non sono sconvolti più di tanto: è normale. Scusateci – ci dice Rock – a causa della dannata nave non abbiamo molto da offrirvi.
L’indomani mattina molto presto, prima di lasciare Port Sandwich, Noelia ci fa trovare il pane fresco, appena sfornato. Acquistiamo anche un po’ di verdura, cetrioli, qualche pomodoro. Poi issiamo l’ancora e percorriamo 34 miglia per dare fondo a nord di Malakula, davanti ad un isolotto di nome Norsup. C’è un pochino di risacca e rolliamo leggermente. L’ancoraggio è bello nonostante sia un po’ profondo (dai 12 ai 18 metri, fondo sabbia ottimo tenitore) e strettino.
Coordinate: 16°03,551 S; 167°24,300 E.
A terra c’è un villaggio, è pomeriggio e i bimbi ritornano dalla vicina scuola a bordo di canoe e piccoli motoscafi accompagnati da un papà o da una mamma. Tutti accostano, tutti ci salutano con sorrisoni incredibili e tutti vogliono sapere chi siamo e da dove veniamo. Siamo invitati ad almeno una dozzina di feste. E’ un vero peccato che non possiamo fermarci più a lungo. Infatti il giorno successivo di buon mattino veleggiamo verso Espiritu Santo (o Santo come la chiamano i locali), la più grande isola delle Vanuatu posta a Nord, Nord Est rispetto a Malakula.
Diamo fondo nella baia a ridosso dell’isola di Ratua, a Sud di Santo. Riusciamo a trovare un buco abbastanza vicino alla costa e ben riparato, si sta davvero bene.
Coordinate: 15*36,694 S; 167°10,444 E.
L’isola ospita anche un resort piuttosto esclusivo, il Ratua Island Resort and SPA, un resort yacht friendly, ma parecchio costoso anche per una sola cena.
L’ancoraggio è davvero molto caratteristico, uno dei pochi con mare trasparente, reef colorati e spiaggia bianca.
La baia è la casa di decine di tartarughe che periodicamente affiorano in superficie per respirare. Ci fermiamo un paio di giorni per esplorare l’isola e i dintorni. Con il dinghy riusciamo a circumnavigare Ratua completamente e a farci anche un paio di bagnetti veloci dalla spiaggia perché il mare è piuttosto freddino.
Quando lasciamo Ratua Island la nostra intenzione è quella di trascorrere qualche giorno a Luganville, la seconda città più grande di tutte le Vanuatu dopo Port Vila. E’ previsto l’arrivo di una bassa che, secondo le previsioni, transiterebbe molto velocemente sull’arcipelago e comporterebbe l’intensificazione delle brezze oltre i 25kt e un giro di vento della durata di 24 ore. La baia di Luganville si trova all’interno di un canale stretto e lungo soggetto alle maree e aperto ai venti da Sud e da Est più intensi di 10kt. L’ancoraggio che si trova davanti al paese non è confortevole a meno di brezze da Nord a Nord Ovest. L’unico vero ridosso è davanti all’isola di Aore, sul lato Ovest, che si trova esattamente davanti alla baia di Lunganville e che grazie alla sua posizione e orografia sfugge a qualsiasi ventone.
Il problema dell’ancoraggio di Aore sono i fondali profondissimi di oltre 40 metri. Sia il resort presente sull’isola – Aore Island Resort – sia il diving Aore Adventure Sports & Lodge hanno installato dei gavitelli, rispettivamente 3 e 5, ad uso delle barche che desiderano sostare nella zona. Durante la nostra navigazione da Ratua a Luganville, contattiamo telefonicamente il resort che a quanto pare ha un gavitello libero e lo riserva per noi. Quando arriviamo, tuttavia, abbiamo una bruttissima sorpresa: il gavitello è stato assegnato ad un grosso catamarano di oltre 70 piedi e ci mandano via malamente con la scusa che con la persona al telefono “ci siamo capiti male”. Traete voi le dovute conclusioni. Di certo questi qui del resort non ci vedranno mai più.
Sfortunatamente il diving non ha boe libere e noi siamo costretti a navigare ancora per qualche miglio e ad infilarci in fondo alla baia di Palikulo, a Nord Est rispetto Luganville. L’ancoraggio è ben protetto, sicuro con fondo sabbioso 12 – 8 metri in mezzo a reef e bassi fondali. Ideale per affrontare il fronte in arrivo.
C’è già un’altra barca ancorata, un Sun Odissey 45.2 battente bandiera belga di nome “Jakkar”, ma il posticino che abbiamo individuato sulle carte e sulle foto satellite è libero, ben ridossato e distante dai nostri compagni di baia. Facciamo un po’ di slalom fra i coralli, poi diamo fondo in mezzo ad una bella e ampia polla di acqua profonda 8 metri.
Coordinate: 15°29,555 S; 167°14,910 E.
La baia è bella, il mare trasparente e pulito. Ci sono molte teste di corallo da esplorare e, soprattutto, non si rolla per niente. Passiamo tre giorni nella baia mentre fuori fa brutto, piove e tira un ventaccio da SW di oltre 25kt. Il secondo giorno saltiamo a bordo del dinghy e ci presentiamo ai nostri vicini. Si tratta di Jacky e Tony, simpaticissima coppia fiamminga – ci tengono moltissimo eh ? – con la quale instauriamo immediatamente un ottimo rapporto. Partono subito gli aperitivi, o “sundowner”, a bordo delle nostre rispettive barche che ci aiutano a passare qualche ora in compagnia e a divertirci nonostante il brutto tempo.
Quando finalmente ritorna il sole, la temperatura si alza e il ventaccio diminuisce un pochino, possiamo esplorare la baia con il dinghy e farci qualche nuotatina fra i coralli e le stelle marine blu fosforescente.
La meteo migliora, ci aspettano almeno un paio di giorni di tempo stabile, venti leggeri e sole. Ne approfittiamo per spostarci più a nord, verso Peterson Point. Vogliamo risalire il corso dei fiumi Matevulu e Riri a bordo del dinghy fino alle rispettive sorgenti. Praticamente due polle di acqua blu e turchese, cristallina e trasparente nelle quali ci si può tuffare.
Alle 10 del mattino siamo già a destinazione dopo aver percorso circa 7 miglia. Diamo fondo davanti all’isolotto di Malono, un posto pazzesco. Nonostante il vento sia diminuito parecchio e ci siano solamente 12kt, l’onda lunga proveniente da Ovest – Sud Ovest si fa sentire. E’ comunque destinata ad attenuarsi nel corso della giornata.
Coordinate: 15°22,675 S; 167°11,693 E.
Saltiamo subito a bordo del nostro dinghy e cominciamo a risalire il primo fiume, Matevulu.
Una volta entrati nel fiume e mano a mano che lasciamo il mare e ci addentriamo nella giungla, l’acqua diventa di una trasparenza e di un colore quasi irreale. Il nostro dinghy sembra spostarsi su una superficie immobile di cristallo turchese oppure fluttuare nel nulla.
Arriviamo alla sorgente, chiamata Matevulu Blue Hole, dopo circa 3 miglia nella vegetazione più fitta. L’acqua è più profonda e si tinge di una specie di blu cobalto fosforescente. I locali hanno allestito delle piattaforme di legno dalle quali ci si può tuffare e hanno installato delle grosse corde legate ai rami più robusti degli alberi da cui ci si può lanciare in acqua prendendo la rincorsa. Ci chiedono 5 VT per accedere alle strutture.
Dopo svariati tuffi, riprendiamo il dinghy, ripercorriamo il fiume Matevulu a ritroso e usciamo nella baia. Ci dirigiamo subito verso il secondo fiume, il Riri.
Il fiume Riri è più corto del Matevulu, ma la sua sorgente, il Riri Blue Hole, è ancora più spettacolare. Acqua bluissima, trasparentissima, piena di quei pescetti che da noi si vedono normalmente negli acquari.
Anche qui ci sono piattaforme e corde da utilizzare per tuffarsi e noi ne approfittiamo ancora, è davvero troppo bello.
Quando torniamo a bordo di Y2K è pomeriggio inoltrato. Inizialmente era nostra intenzione passare la notte nell’ancoraggio di Malono, ma si rolla parecchio già con la bassa marea, figuriamoci con quella alta, quando quasi tutto il reef alla nostra sinistra viene sommerso. Decidiamo quindi di tornare nella baia di Palikulo. Diamo fondo nella stessa posizione dei giorni precedenti e dormiamo come sassi in un mare immobile.
Dopo la baia di Palikulo la nostra prossima meta è un ancoraggio che si trova a Nord di Santo. Si tratta di un insenatura molto protetta situata davanti al villaggio di Port Orly e distante circa 52 miglia da Palikulo.
Partiamo di buon mattino, la navigazione verso la nostra destinazione è molto piacevole: 19kt da SE, tutto di poppa, siamo velocissimi e arriviamo giusti per l’ora di pranzo
La zona di ancoraggio si trova sul lato Ovest di un’isola di nome Thion (o Dolphin Island), davanti ad una lingua di sabbia bianca. A Nord si trova l’isolotto-scoglio di Malvoror mentre la cittadina di Port Orly si estende a Sud Ovest. C’è una baia molto profonda ancora più a ovest, ma le attuali condizioni del mare rendono l’ormeggio molto rollante e poco confortevole.
Diamo fondo in 8 metri, fondo sabbioso ottimo tenitore. In fase di avvicinamento bisogna prestare attenzione ad alcuni bassi fondali e reef che circondano lo scoglio di Malvoror, ma le fotografie satellitari, come anche le carte, sono molto accurate.
Coordinate: 15°02,162 S; 167°05,004 E.
Il posto è molto suggestivo e dato che aspettiamo un altro peggioramento delle condizioni meteo con rinforzi da SSE fino a 30kt e piogge decidiamo di fermarci per qualche giorno.
La prima notte siamo da soli, poi arrivano due barche francesi che ancorano alla nostra sinistra. Lo skipper di una delle barche ci regala un enorme filetto di quello che doveva essere un Mahi-mahi di circa 7 chili. Lo ringraziamo la mattina dopo preparandogli la focaccia fresca per colazione.
Ce ne andiamo a terra ad esplorare l’isola Malono. Scopriamo che l’isola nasconde due laghetti interni, uno dei quali è facilmente raggiungibile seguendo un sentiero per una decina di minuti.
Quando il tempo peggiora sensibilmente, piove e tira un ventaccio freddo e fastidioso ce ne andiamo a visitare il villaggio di Port Orly.
Dopo aver percorso un sentiero, ci immettiamo nella “via” principale e ci dirigiamo verso la parte centrale del villaggio. Raggiungiamo le prime case e le prime capanne – qui ci sono sia abitazioni tradizionali che in muratura – proprio quando i bambini e i ragazzi escono da scuola. In questa parte di Santo la lingua più parlata dopo il Bislama è il Francese e riceviamo da tutti gli studenti grandi sorrisi, un’infinita serie di “bonjour!” e “Welkam”.
Tutti quanti al villaggio ci salutano: si sbracciano dai giardini delle abitazioni, dalle viette laterali, dalle finestre dei negozietti o delle botteghe. Sempre di più siamo colpiti dal calore e dall’accoglienza di questo popolo.
Passiamo davanti alla chiesa del paese – la chiesa di St. Anne – gestita, ci dicono, da un prete Italiano, un vero missionario che ha dedicato la sua vita ad assistere il popolo delle Vanuatu. Entriamo con la speranza di incontrarlo, ma non riusciamo a trovarlo da nessuna parte.
Continuiamo la nostra visita e ci ritroviamo sulla lunga e bellissima spiaggia che delimita il paese a Est. C’è tanto vento da Sud-Sud Est, la baia è esposta, ma è molto bella. Abbiamo fame e troviamo un ristorantino molto invitante che si affaccia direttamente sulla spiaggia. Si tratta del Chez Louis ristorante, ma anche Bar e Beach Bungalow.
Ci sediamo ad un tavolo e mentre aspettiamo il nostro cibo riusciamo a scorgere le code e i dorsi scuri di un paio di dugonghi. Non siamo riusciti ad incontrarli mai direttamente durante un’immersione, ma non è la prima volta che li intravediamo in superficie.
Il tempaccio imperversa, soffia forte e fuori dal nostro angoletto il mare è montato parecchio. Ogni giorno sentiamo Marina, Alice e Diego del “Meccetroy” alla radio: si trovano a nord, a Gaua, una delle Isole Banks. Anche loro sono in attesa di una meteo più favorevole per dirigere verso sud.
Alla fine siamo costretti a fermarci per una settimana e la mattina in cui finalmente salpiamo l’ancora, appena fuori dal ridosso, ci ritroviamo con un mare enorme di prua e raffiche a 27kt. Fortunatamente queste condizioni durano per poco e presto siamo ridossati dalla isola stessa di Santo, non appena superiamo Hog Harbour.
Facciamo rotta per Luganville dove vogliamo rimpinguare un pochino la nostra cambusa e acquistare qualcosa di fresco al mercato locale. Per quanto riguarda l’ormeggio ai gavitelli, questa volta contattiamo Paul, il manager del Diving di Aore, e ci assicuriamo ci sia una boa libera per noi. Quando arriviamo a destinazione, il gavitello è in effetti riservato per Y2K. Alla faccia di quei boriosi del resort !
Coordinate: 15°32,152 S; 167°10,918 E.
Nel tardo pomeriggio anche “Meccetroy” agguanta una delle boe disponibili. L’area è davvero molto ben protetta, praticamente non c’è vento, fa caldo e si sta molto bene.
Il giorno dopo prendiamo un water taxi, ovvero dei motoscafi veloci che fanno la spola fra Aore e Luganville, e ce ne andiamo tutti in città a fare spese, poi al ristorante per una cenetta in compagnia.
Stiamo alle boe per un paio di giorni, poi, all’alba, ci muoviamo insieme a “Meccetroy” e ce ne andiamo nella baia di Lolowai, isola di Ambae. Ambae si trova a Est di Santo e l’ancoraggio a cui siamo diretti dista circa 60 miglia ed è a Nord Est.
Nel tratto Santo –Ambae peschiamo anche un bel tonno !
La baia di Lolowai è protettissima ma è caratterizzata da un’entrata cosiddetta “stringichiappe” da tentare solamente con l’alta marea se si pesca più di 2 metri. Noi entriamo proprio mentre la marea inizia la sua fase di discesa con il profondimetro che riporta 2,90 metri nel punto più critico.
Una volta superata la pass, si può dare fondo nell’area di Sud, Sud Est della baia, il fondo è sabbioso e ottimo tenitore. Una lingua di roccia e corallo si allunga verso Ovest e protegge l’ancoraggio dalla risacca.
Coordinate: 15°16,875 S; 167°58,790 E.
La baia è circondata da vegetazione lussureggiante e da una spiaggia nera vulcanica. Il villaggio omonimo si trova nella parte Est.
Con Alice, Marina e Diego visitiamo il villaggio, ci presentiamo al Chief (Capo) e godiamo della bellezza dell’ancoraggio approfittando della meteo favorevole: sole e brezze leggere per qualche giorno.
Dopo Ambae navighiamo le circa 15 miglia che ci separano da Maewo e diamo fondo nella bellissima baietta di Asanvari, a sud dell’isola, in 14 metri, sabbia.
Coordinate: 15°22,601 S; 168°07,959 E.
L’ancoraggio è piuttosto profondo un po’ ovunque, fatta eccezione per una piccola zona a Ovest della baia, vicina al promontorio. Non è possibile avvicinarsi troppo alla costa a causa dei reef e delle grosse rocce semisommerse.
Una volta sistemati, insieme all’equipaggio di “Meccetroy” ce ne andiamo a visitare il villaggio, poi le cascate di Asanvari. Le cascate sono gestite e manutenute dall’incredibile Alex. Per un lungo periodo della sua vita, Alex ha lavorato negli Stati Uniti, poi è ritornato nella sua terra e nella sua isola decidendo di preservare una delle bellezze di questa area. Alex ci accoglie con un sorriso e ci saluta in Inglese con perfetto accento Yankee !
Alex ci accompagna per un breve giro turistico attraverso i sentieri che si inerpicano nella foresta e che circondano la cascata, ci racconta la storia di Maewo, di come nell’isola si praticasse ancora il cannibalismo in tempi piuttosto recenti e di come gli abitanti abbiano rischiato l’estinzione a causa di continue feroci guerre fra le varie tribù. Solo grazie ad un capo villaggio, più saggio di altri, sono riusciti a interrompere le ostilità e a ripopolare l’isola facendo arrivare uomini e donne dalle isole vicine.
Al villaggio compriamo pane fresco e qualche oggetto di artigianato locale: una canoa intagliata da un unico blocco di legno, le tipiche borsine che le donne intrecciano con il pandano e che tutti, ma proprio tutti indossano. Ancora una volta conosciamo persone gentili e accoglienti.
Ma l’esperienza più incredibile, più umanamente profonda e commovente di tutta la nostra avventura alle Vanuatu e forse di tutto il nostro lungo viaggio a partire dal 2015, la viviamo nei giorni successivi, quando diamo fondo davanti al piccolo e poverissimo villaggio di Loltong, Pentecoste.
Navighiamo, sempre in compagnia di “Meccetroy”, le 14 miglia che separano la baia di Asanvari dalla baia di Loltong, l’unico ridosso decente di tutta l’isola di Pentecoste. Diamo fondo nella parte più a sud della baia, dove il fondo è meno profondo e le zone di sabbia sono più ampie.
Coordinate: 15°33,120 S; 168°08,451 E.
Non appena siamo sistemati, siamo subito attirati dal suono ritmico di tamburi provenienti dal villaggio. Saltiamo a bordo dei nostri dinghy e ci avviciniamo alla spiaggia facendo lo slalom fra le teste di corallo.
Appena sbarchiamo e sistemiamo i nostri dinghy sulla spiaggia, veniamo accolti praticamente dall’intero villaggio: sorrisi, strette di mano, abbracci. Arriva il capo villaggio, si presenta, vuole sapere i nostri nomi, da dove veniamo. Le barche a vela non si ancorano spesso nella loro baia, anzi, sono una vera rarità e tutti sono euforici a causa nostra.
Il “chief” ci spiega che il villaggio sta festeggiando la morte del vecchio capo che a quanto pare era bravo e amato da tutti. Qui alle Vanuatu, un bravo capo, alla sua morte, viene ricordato per 5 settimane con feste, cene e danze. Un giorno alla settimana, per tutta la durata delle 5 settimane, si suonano i tamburi, si passa la giornata insieme preparando la cena nel “Nakamal”, la sera si danza e, solo per gli uomini, si beve la kava.
I tamburi sono creati a mano da un unico tronco d’albero e ciascuno di essi emette un suono differente.
Il capo ci presenta a tutto il villaggio, le donne ci portano doni – frutta, noci di cocco appena colte, verdura e le borse in pandano – ci invitano ad entrare nel Nakamal dove altre donne, con i loro bimbi più piccoli, stanno preparando la cena per i festeggiamenti della sera.
Ci accolgono tutti quanti come fossimo della famiglia, ci invitano pure alla festa, a condividere il loro cibo e i loro canti. Ci guardiamo attorno, ci sembra di essere stati catapultati in un universo parallelo, in un luogo fermo a 300 anni fa. Non c’è nulla di nulla, non c’è impianto di acqua dolce o potabile nelle capanne (i lavori erano in corso al momento della nostra visita), non ci sono uffici, banche, market, tutto ciò che gli abitanti di Loltong hanno arriva da Port Vila (quando arriva) o da quei pochi visitatori che, come noi, hanno la fortuna di ancorare nella baia. Noi portiamo vestiti per i bimbi, materiale scolastico, biancheria intima, strumenti da lavoro o per pescare.
I bimbi giocano con rudimentali giocattoli di legno, bambole fatte con noci di cocco e stracci, palloni conciatissimi mezzi sgonfi. Però gli abitanti di Loltong sorridono tutti con gli occhi, ci rivolgono parole gentili, ci aprono le loro umili, ma pulitissime e dignitosissime capanne.
Scattiamo le foto, tutti vogliono rivedersi sul piccolo visore delle nostre macchine fotografiche o videocamere. Impazziscono di felicità non appena si rivedono.
Ci spostiamo nella zona del villaggio in cui sorgono le scuole: ci sono la materna, le elementari, le medie e la media superiore. La notizia dell’arrivo degli “stranieri delle barche” si è diffusa anche fra i giovani studenti e sono tutti in fibrillazione. Escono dalle classi, ci chiamano, si fanno fotografare fra allegri schiamazzi e saluti scoordinati: ormai la giornata di studio è andata, per buona pace degli insegnanti che non sembrano super contenti, ma accettano di buon grado questi 30 minuti di “allegra follia” da parte dei loro alunni.
Noi andiamo a salutarli, gli insegnanti, anche un po’ per scusarci della nostra intrusione improvvisa a turbare la tranquillità di un normale giorno di lezione.
Il mattino successivo ritorniamo a terra portando con noi le stampe delle foto scattate durante la giornata precedente. Le distribuiamo a tutti gli abitanti immortalati, agli insegnanti da esporre nelle classi, al capo villaggio, alle donne riprese nel Nakamal, agli anziani che ci abbracciano quasi con le lacrime agli occhi perché – come ci dicono – l’ultima volta che hanno visto se stessi e i loro cari in foto è stato “long, long, long time ago” (tanto, tanto, tanto tempo fa) e ci mostrano stampe più o meno stropicciate, dai colori ormai sbiaditi, dagli angoli consunti.
Ci fermiamo ancora qualche ora con la gente di questo incredibile villaggio, giochiamo a nascondino con i bambini, ringraziamo tutti per la commovente ospitalità e suoniamo il fischio anti nebbia mentre salpiamo l’ancora per continuare il nostro percorso verso sud. Dalla costa tante mani ci salutano, i bimbi urlano gli arrivederci in bislama.
Insieme a “Meccetroy” ci allontaniamo lentamente dalla baia e cominciamo la nostra discesa lungo le alte scogliere a picco sul mare di Pentecoste. Passiamo numerosi altri piccoli villaggi e dalle scuole, solitamente costruite nei punti più alti del villaggio, i bimbi prima si accorgono di noi, poi escono tutti gesticolando e agitando le magliette delle loro uniformi scolastiche per farsi notare. Suoniamo il fischio anche per loro che si sgolano ancora di più. Questo accade praticamente per ogni centro abitato che incontriamo sulla nostra rotta: incredibile!
Navighiamo per circa 40 miglia prima di raggiungere l’isola di Ambrym. Nel canale fra Pentecoste e Ambrym – circa 8 miglia – il vento subisce un’importante accelerazione e il mare monta con onde frangenti e gonfie che ci prendiamo prima al traverso, poi al lasco.
Siamo contenti quando finalmente siamo a ridosso dell’isola e il mare si calma. Raggiungiamo la baia di Ranon che ormai è praticamente buio. L’ancoraggio non presenta particolari difficoltà. E’ ben indicato nelle carte e consiste in una lunga e ampia distesa di sabbia nera dove è possibile dare fondo ovunque. E’ molto riparato, soltanto qualche raffica riesce a superare l’alta montagna di Ranon. L’unico grosso problema per noi è trovare un buon posto evitando le altre barche già alla fonda.
Riusciamo a trovarci un posticino ben ridossato e diamo fondo in 8 metri. L’ancora va sotto la sabbia immediatamente e noi ci prepariamo la cena.
Coordinate: 16°08,523 S; 168°06,952 E;
Uno dei motivi per cui visitiamo Ambrym, oltre alla selvaggia bellezza tipica di un’isola che ospita il secondo vulcano più attivo dell’arcipelago, è il festival “Back to the root” (ritorno alle radici), organizzato dagli abitanti del villaggio di Olal situato proprio a nord di Ambrym.
Il festival dura 3 giorni nei quali il capo villaggio e tutti gli abitanti di Olal e dei villaggi vicini, si riuniscono in una zona sacra che si trova in mezzo alla foresta tropicale poco distante e ripercorrono gli antichi rituali, le antiche danze e i canti tipici celebrativi dei Ni-Vanuatu. Tutto scrupolosamente eseguito nei “vestiti” tipici delle isole di 300 anni fa. La bellezza di questo festival è potervi assistere in qualità di ospiti privilegiati, conoscere tutti i protagonisti, “chief” incluso, entrare nelle capanne, pranzare insieme ai locali con il cibo preparato al momento dalle donne del villaggio.
Possiamo ammirare e, volendo, anche acquistare ad un prezzo più che ragionevole i lavori artigianali scolpiti nel legno: statue e maschere commemorative, tamburi e tam-tam. Oppure i flauti ricavati dal bambù, monili e ornamenti.
Gli uomini ci mostrano l’arte del “sand drawing” – i disegni nella sabbia – un patrimonio rituale e tradizionale unico dell’arcipelago, tramandato da generazioni e coltivato con passione e maestria da secoli. Non tutti possono essere artisti del sand drawing, esistono i veri e propri maestri di quest’arte molto complessa. Il disegnatore, utilizzando un solo dito e senza mai sollevarlo, crea una linea continua sulla sabbia vulcanica del terreno, tracciando simboli solitamente simmetrici, geometrici e aggraziati che rappresentano avvenimenti storici, rituali, forme di comunicazione fra tribù differenti, simboli cosmici o mitologici.
Infine, sotto una pioggia battente, assistiamo alle danze rituali tipiche: l’elezione di un nuovo capo, in onore degli ospiti, il matrimonio, a favore dei raccolti. Uno spettacolo raro, cui abbiamo l’enorme fortuna di poter accedere di persona.
Dopo il festival rimaniamo nella baia di Ranon per qualche giorno, in attesa che l’ennesimo rinforzo di vento si svampi.
Da Ambrym torniamo a Port Sandwich di Malakula per una sosta breve di sola una notte, quindi ce ne andiamo ad esplorare le Maskelyne, un gruppo di isolotti posti a sud est di Malakula e dove ci sono i villaggi più remoti e autentici di tutte le Vanuatu.
La meteo non ci aiuta per nulla: a causa del forte vento e delle grosse onde di risacca non ci è possibile ancorare nella baia di Lokienuen, isola di Uliveo. Uliveo è la più caratteristica delle Maskelyne, ma nostro malgrado, dopo un paio di tentativi per cercare un ridosso decente dal mare, siamo costretti a desistere e a ripiegare su un altro ancoraggio. Peccato perché gli abitanti ci stavano già aspettando tutti a bordo delle loro canoe.
Troviamo un buon ridosso dietro l’isola di Awei una delle Maskelyne più a ovest. Diamo fondo in 10 metri, sabbia, ottimo tenitore.
Coordinate: 16°32,069 S; 167°46,225 E.
Scendiamo a terra e andiamo al minuscolo villaggio che si trova esattamente nel lato sopravvento dell’isolotto. Durante il percorso incontriamo molte donne che stanno raccogliendo le foglie di pandano per poi intrecciarle per creare panieri, borse, recipienti di vario tipo. Ci salutano sorridendo, si presentano, ci vogliono conoscere. Ci dicono che al villaggio non troveremo nessuno perché loro sono qui, a raccogliere il pandano o a lavorare la terra con i bambini, gli uomini sono a pescare o negli orti.
In effetti quando raggiungiamo le capanne troviamo solo un cagnolone e un micetto rosso e bianco che ci vengono incontro per farsi coccolare
E’ la fine di Agosto ormai, purtroppo dobbiamo cominciare a pianificare la nostra tappa successiva verso la Nuova Caledonia. Già, purtroppo… perché non abbiamo tanta voglia di lasciare le Vanuatu.
Dalle Maskelyne navighiamo verso sud e ci ritroviamo ancora una volta al gavitello del Yachting World Marina di Port Vila dove aspettiamo la finestra giusta per salpare e ne approfittiamo per fare lavoretti ed una bella cambusa.
il 30 Agosto la meteo è buona. E’ il momento di effettuare le pratiche di uscita dal paese e di volgere la prua verso S, SE. Dobbiamo navigare le 377 miglia che ci separano da Noumea. Ci lasciamo alle spalle le Vanuatu con il cuore pesante, avremmo voluto fermarci all’infinito e trascorrere mesi e mesi in mezzo a questo popolo gentile e sperduti negli ancoraggi di queste isole del sorriso.
Arrivederci cari Ni-Vanuatu, ritorneremo.