Da Milano a Auckland nel periodo del Coronavirus

Siamo atterrati ieri sera ad Auckland in Nuova Zelanda via Dubai con un aereo Emirates.

E’ una settimana circa che eravamo preoccupati di questo viaggio, ogni giorno i media riportano eventi e fatti sempre più drammatici: i contagi crescenti ed il numero dei deceduti da Covid-19 in aumento.
 
Come saremmo arrivati a destinazione dall’altra parte del mondo?
 
E’ circa sette o otto giorni che leggiamo le informazioni, riportate precise e puntuali, dal sito del ministero della salute Neozelandese e dal sito dell’immigrazione Neozelandese.
Pochi giorni fa la povera Italia è stata declassata a paese ‘untore’.
Ogni giorno il Ministro della Salute kiwi o suo delegato, emettendo un bollettino perfettamente intellegibile, non scritto in politichese, ci stava facendo comunque sperare per il meglio.
Grazie ai nostri santi in paradiso, ma forse grazie più alla attenzione e serietà Kiwi, le frontiere per gli Italiani non vengono chiuse, questo nonostante una donna contagiata, la seconda nel paese, sia appena rientrata da un viaggio nel nostro Nord Italia.
Vuoi vedere che stanno facendo l’errore che abbiamo commesso noi in Italia?
Invece no.
Le frontiere, per noi, rimangono aperte seppur con qualche restrizione per gli italiani provenienti dal Nord Italia: auto isolamento per 14 giorni che inizia dall’ultima volta che si è stati nel paese ‘untore’. Significa pertanto che dovremo stare in una quarantena ‘light’ chiamato auto-isolamento: non potremo avere contatti sociali con nessuno, quindi niente amici, supermercati, ristoranti, musei, cinema e via dicendo.
Leggendo questo comunicato tre giorni prima della partenza, siamo sì felici, una felicità amara perché comunque dovremo rimanere isolati per qualche giorno, ma allo stesso tempo contenti che non ci respingano.
Ma se in questi tre giorni, prima della nostra partenza le cose dovessero andare peggio?
Lo potremo scoprire solo il giorno della partenza.
 
Verifichiamo quindi anche cosa succederà a Dubai, dove dovremo fare scalo.
Siamo meno preoccupati di questa tratta perché per noi è solo uno scalo tecnico, non usciremo dall’aeroporto e non avremo contatti con il suolo degli Emirati Arabi Uniti.
La tensione comunque è alta, soprattutto quando apprendiamo che altre linee aeree arabe hanno chiuso i voli con il nord Italia, speriamo davvero che non succeda anche con la nostra compagnia aerea.
Leggiamo dal sito di Emirates che per tutti i passeggeri provenienti dal nostro paese, che transiteranno dall’aeroporto di Dubai, ci sarà solo un controllo della temperatura, mentre coloro che usciranno dall’aeroporto al controllo della febbre si aggiungerà anche un tampone nasale e se con sintomi anche una breve visita medica che potrebbe poi diventare una quarantena.
 
Arriva il giorno della partenza, il volo da Milano Malpensa per Dubai parte alle 21.30, ci rechiamo in aeroporto con deciso anticipo, un po’ per l’abitudine di evitare il traffico della tangenziale ed un po’ per avere la tranquillità di fare un check in con i dovuti tempi.
Il viaggio dalla nostra abitazione a sud-est di Milano verso Malpensa è tranquillo, nonostante l’ora, stranamente poco affollata, la chiusura delle scuole e di alcune aziende ha sicuramente inciso anche sul traffico, però nulla fa presagire quanto troveremo all’aeroporto di Malpensa.
 
L’aeroporto è vuoto, pochissima gente, regna un silenzio davvero irreale, abbiamo frequentato questo aeroporto moltissimo in passato e nelle ore più disparate e sappiamo che nemmeno la notte è così silenzioso. L’aria che si respira è anche profumata, i pavimenti pulitissimi e scintillanti, davvero pochissime persone in attesa ai banchi dei check-in. La maggior parte delle persone sono straniere, quasi tutti con la mascherina o se così la si vuole chiamare, c’è chi ha una sciarpa o un foulard, chi una mascherina nera o chi una mascherina bucata. Sembrano tante persone che stanno scappando.
 
Il silenzio è davvero irreale, ma ciò che più ci colpisce è la zona degli imbarchi, soprattutto la zona dei controlli bagagli. Ci sono circa venti nastri ed una trentina di persone addette ai controlli. Noi passeggeri circa sei, forse otto. Scambiamo qualche parola con uno degli operatori addetti al controllo, con cui normalmente è impossibile chiacchierare se non per le solite parole che loro ripetono meccanicamente: Cintura? Orologio? Computer? Telefono? Tasche vuote?
Invece oggi ci ritroviamo un uomo seriamente preoccupato di perdere il suo posto di lavoro o alla meno peggio di finire in cassa integrazione se il governo darà loro la possibilità di accedervi.
 
Siamo davvero frastornati, le parole di quell’uomo ci lascia attoniti, il viso tirato e preoccupato di chi dovrà pensare a mantenere la propria famiglia in un momento di crisi ci fa sbarellare.
Niente di meglio nei lunghi corridoi che portano al gate di imbarco, tanti negozi di firme più o meno blasonate sono vuoti, nei corridoi, solitamente affollati di persone che sembrano fare a gare per vedere che cammina più veloce, pochissime persone che sembrano passeggiare raccolte nei loro pensieri.
 
Ci imbarchiamo in orario su un Airbus 380 a due piani con una capienza di centinaia di persone, ma quasi semivuoto. Il personale di bordo distribuisce un questionario di tre pagine ai passeggeri che si fermeranno a Dubai, non conosciamo il contenuto, ma immaginiamo domande sulla salute o sulle località visitate recentemente. Ci informano che all’arrivo scenderanno prima tutti i passeggeri in transito, solo dopo gli altri passeggeri sui quali il controllo sanitario sarà più lungo ed accurato.
 
Quando sbarchiamo dall’aereo, ci troviamo in un terminal che solo nei film catastrofici hollywoodiani abbiamo visto: decine di persone in tuta sterile con cappuccio, copri scarpe, mascherine (questa volta sì serie) occhiali e guanti ci indicano la strada da seguire. E’ come un imbuto, ad ogni angolo c’è qualcuno che ti guida verso l’uscita, dove ci saranno i controlli, ogni svolta ed ogni porta è presidiata: non si può sfuggire.
Molti di questi controllano la carta di imbarco per assicurarsi che davvero siamo in transito.
Finalmente passiamo davanti ad una telecamera, uno alla volta lentamente dove un addetto controlla un monitor.
Appena passato lancio una occhiata al monitor, si vede la sagoma delle persone che passano davanti la telecamera, nessun volto ma sagome nere come quelle di tanti fantasmi, che forse diventano rosse sopra una certa soglia di temperatura.
Dopo questo controllo uno sbarramento di personale, immaginiamo sanitario, ci si para davanti, questi vestiti in modo ancora più attento ed in qualche modo spaventoso.
Appena li notiamo ci preoccupiamo, hanno l’aria minacciosa, ci controllano anch’essi la carta di imbarco e poi ci lasciano passare.
Girandoci di lato vediamo un laboratorio con lettini dove probabilmente il personale sanitario farà i tamponi e forse qualche accertamento medico. Ci chiediamo in quanto tempo i risultati verranno dati e se verranno comunicati, ma non ce la sentiamo di chiedere.
Ci troviamo in una zona dell’aeroporto che non abbiamo mai visto, sembra una zona remota e comunque è vuota, pochissima gente in giro. Dopo il controllo passaporti e il check dei bagagli l’aeroporto di Dubai si mostra di nuovo per quello che è, un gigantesco hub affollato, forse un poco meno affollato dell’ultima volta, ma comunque qui le persone ci sono, è quasi una situazione normale.
 
Il volo per Auckland è in orario e quasi pieno, la differenza la si nota immediatamente nella sala affollata dell’imbarco. Si respira un’aria meno catastrofica rispetto a Milano, qualche mascherina sui volti delle persone, ma portata in modo spensierato, quasi per moda.
 
Eravamo preoccupati di come, da Italiani, saremmo stati trattati. Sui giornali abbiamo letto di tutto, Italiani in vacanza o residenti in un paese straniero, comunque messi alla gogna anche se il loro ultimo contatto con l’Italia è avvenuto mesi prima, l’ignoranza ed il panico sono una brutta miscela.
Speriamo che i kiwi, solitamente persone pacate e molto socievoli, non siano di questa pasta.
 
Il volo procede regolarmente, il personale di bordo, nonostante conoscano tutti i dettagli di ogni singolo passeggero, non mostrano alcun problema ad avvicinarci, anzi si dimostrano come sempre attenti e disponibili.
Ci aspettavamo qualche questionario ‘strano’ da compilare ed invece viene distribuito il solito modulo dell’immigrazione.
 
Scesi dall’aereo, l’aeroporto risulta normale, niente presidi speciali o personale in tuta antisettica o con mascherine.
Qualche cartello con riferimento al Coronavirus, come riconoscere i sintomi, chi contattare o cosa fare.
Ci avviamo allo sportello del controllo documenti ed immigrazione, l’ufficiale (senza mascherina) ci pone le domande di rito, vede che siamo Italiani e solo dopo aver concluso le sue ‘solite’ procedure, ci chiede di seguirlo, ce lo aspettavamo, anzi ci chiedevamo quando sarebbe successo.
Pochi passi dietro la sua postazione un banchetto con personale dedicato all’emergenza Coronavirus (anche lei senza mascherina) ci chiede l’ultima volta che siamo stati in Italia. Per noi è solo due giorni fa (fuso orario compreso). Ci racconta quanto avevamo già letto, ringraziamo mentalmente i nostri santi in paradiso che nelle quasi 30 ore di viaggio nulla sia cambiato.
L’operatore ci chiede le nostre condizioni, appurato che siamo in ottima salute, ci racconta che dovremo attenerci ad un periodo di 14 giorni di auto-isolamento, ne più ne meno di quanto letto, ci consegna un documento con un paio di fogli con tutte le indicazioni ed i numeri telefonici da contattare in caso di problemi e/o di domande da porre, quindi ci accompagna ad un altro banco dove ci dovremo ufficialmente registrare e dove indicheremo il nostro indirizzo di isolamento.
Ci chiede se avremo bisogno di assistenza per il cibo o se necessitiamo di denaro per questo isolamento. Ringraziamo ma spieghiamo loro che abbiamo un posto dove andare, che indichiamo, che abbiamo amici provenienti anche loro da diversi parti del mondo, kiwi compresi, che si sono già offerti di aiutarci con la spesa e le prime necessità.
 
Usciamo dall’aeroporto molto più sollevati.
Dovremo stare in isolamento per 14 giorni, che rispetteremo sino in fondo, perché è giusto nei confronti di un paese che ti ospita, dei loro abitanti e dei nostri amici. Noi stiamo bene ma potremmo essere asintomatici oppure potremmo aver contratto il virus giusto il giorno prima di partire è giusto essere prudenti.
Ci siamo così accorti, ma non è purtroppo la prima volta, che siamo atterrati in un paese civile che ha attuato una politica seria e rispettosa delle persone che ci vivono e che ci arrivano, cosa che l’Italia purtroppo non ha fatto appena il problema si era presentato ai nostri confini.
Spesso purtroppo in Italia pensiamo troppo agli altri prima che a noi stessi.
 

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